Antimafia Duemila & Terzo Millennio
Martedì 03 Settembre 2019 21:04
(DA ANTIMAFIA DUEMILA ONLINE)
di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari -
“Appena è uscito lui con sua moglie, lo abbiamo seguito a distanza. Potevo farlo là, per essere più spettacolare, nell’albergo, però queste cose a me mi danno fastidio… L’indomani gli ho detto: 'Pino, Pino (si riferisce a Pino Greco detto "Scarpuzzedda", uno dei più famigerati killer di Cosa Nostra) vedi di andare a cercare queste cose che … prepariamo armi'. A primo colpo, a primo colpo ci siamo andati noi altri… eravamo qualche sette, otto di quelli terribili, eravamo terribili. Nel frattempo lui era morto ma pure che era morto gli abbiamo sparato là dove stava, appena è uscito fa… ta… ta..., ta… ed è morto”. E' il 4 settembre 2013 quando la Dia, nel carcere Opera di Milano, registra le parole del Capo dei Capi, Salvatore Riina, mentre parla con il suo compagno d'ora d'aria, Alberto Lorusso. La sua è una descrizione macabra e violenta dell'attentato del 3 settembre 1982 quando, in via Carini a Palermo, vennero uccisi a colpi di kalashnikov, da un commando di Cosa Nostra, il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.
Un omicidio di mafia, come accertato nelle sentenze che hanno condannato in via definitiva i killer (Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia, insieme ai collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci) e i mandanti interni a Cosa nostra (Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci) ma che presentano anche quei contorni, tra pezzi mancanti e misteri, propri delle grandi stragi di Stato.
Dalla Chiesa, alto ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, fu prefetto a Palermo per appena 100 giorni. Al più volte presidente del Consiglio Giulio Andreotti, poco prima di partire per la Sicilia, disse: "Non avrò riguardo per quella parte dell'elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori". Lo ha raccontato chiaramente il figlio, Nando dalla Chiesa, nel libro "Delitto Imperfetto". "Mio padre disse a noi dopo quel colloquio: 'Sono stato da Andreotti e quando gli ho detto tutto quello che si dice sul conto dei suoi in Sicilia è sbiancato in faccia'". Parole che furono testimoniate anche nel processo. Nando dalla Chiesa accusava quantomeno di complicità morali gli appartenenti alla corrente andreottiana della Democrazia cristiana.
Del resto il prefetto dalla Chiesa aveva chiesto poteri speciali per combattere la mafia così come aveva combattuto il terrorismo. Gli furono promessi dal ministro Rognoni ma concretamente non gli furono mai dati.
Anche le altre figlie del generale dalla Chiesa, Rita e Simona, sono più volte intervenute negli anni per chiedere verità giustizia. Qualche anno fa Simona ha ricordato un fatto semplice: "La mafia in quel momento non aveva convenienza nell’uccidere mio padre. Non aveva ancora i poteri per mettere in atto quel che aveva in mente. E non poteva nemmeno compiere delle indagini specifiche proprio perché non è quello il compito del Prefetto. E la mafia sapeva anche che uccidendo lui, la moglie e l’agente Russo avrebbe portato anche ad una reazione dell’opinione pubblica. Dunque perché si doveva uccidere?”.
E' proprio questa una delle domande rimaste fin qui inevase. Del resto sono diversi i punti oscuri da chiarire come ad esempio la scomparsa dei documenti dalla cassaforte e dalla valigetta del generale. E' sempre Totò Riina ad aver confermato di recente: “Gli hanno portato via tutto”.
Chi ha voluto, dunque, la morte del Generale dalla Chiesa, vero padre della Patria?
Quel che appare evidente a 37 anni di distanza è che a volere ed a beneficiare della sua morte non è stata solo Cosa nostra così come, certamente, non furono uomini di Cosa nostra ad entrare nell'abitazione del Prefetto a Villa Pajno nel corso della notte fra il 3 e il 4 settembre 1982, per svuotare la cassaforte che lì era presente.